Dopo 18 giorni di occupazione dell’ex Scuola Salvo D’Acquisto in via Tollegno 83, abbiamo deciso di mettere nero su bianco alcune riflessioni collettive sull’importanza, simbolica e concreta, che ci è sembrata assumere questa nuova esperienza all’interno dei mutamenti fisici e urbanistici della città.
Sulla scia dello slancio liberatore del maggio ’68, si è rapidamente sviluppata tutta una letteratura sul tema del «diritto alla città», teorizzato dal sociologo Henri Lefebvre e popolarizzato da una piccola borghesia intellettuale radicalizzata che percepiva nel «campo urbano» l’apertura di un «nuovo fronte» contro la dominazione borghese. Le «lotte urbane» condotte in quest’epoca contro i progetti di pianificazione della tecnocrazia o le operazioni immobiliari dei «mercanti della città» sembravano accreditare la legittimità di questa visione. Organizzati in comitati di utenti, consigli di residenti e altre associazioni di abitanti, sostenuti da militanti che si auguravano un’estensione o uno spostamento della contestazione dal campo del lavoro verso lo spazio urbano, numerosi cittadini facevano valere la loro volontà d’intervenire direttamente nel settore che fino ad allora era rimasto appannaggio dell’urbanesimo e dell’architettura. […] Lo slogan «cambiare la città per cambiare la vita» aprirà la strada a un imperversare di proposte per far «partecipare» gli abitanti al «miglioramento del proprio ambiente di vita». Si arriverà persino a raccomandare l’«auto-gestione» di quest’ultimo, in nome di un ampliamento della democrazia locale ritenuto indispensabile. Trascinati da questo flusso ideologico, alcuni architetti parleranno di «coinvolgere gli utenti» nella definizione e realizzazione di progetti urbani; i più radicali non esiteranno a riprendere la parola d’ordine usata dal collega egiziano Hassan Fahti in tutt’altro contesto: «Costruire con il popolo».
«Un nuovo fiore è sbocciato» ed è un fiore le cui radici sono storicamente ancorate a quello «slancio liberatore» che imperversava sul finire degli anni Sessanta: il primo progetto della scuola riporta la data 1968. Un progetto con grandi ambizioni architettoniche e pedagogiche, risvolto reale delle nuove forme di sperimentazione urbana e di organizzazione sociale che caratterizzavano quel periodo; un grande parco alberato, un atrio immenso, corridoi luminosi, piscine al coperto, palestre, auditorium, raccontano all’occhio di chi attraversa questo spazio il poderoso sforzo di immaginazione collettiva messo in piedi da un gruppo di architetti e pedagogisti al fine di costruire uno spazio di partecipazione e crescita, un luogo «senza spazi separati per favorire scambi tra alunni», «una scuola elementare sperimentale a tempo pieno». Ma se l’architettura, all’interno delle trasformazioni urbane, diviene strumento d’esercizio dell’ordine e «di un’arte del comandare», succede che la Scuola Salvo D’Acquisto viene chiusa e svenduta al miglior offerente. Ancora una volta storia passata e storia presente s’intrecciano in maniera inequivocabile.
In questo terreno impervio, il fiore di questa nuova occupazione sboccia, e ha tutta l’aria d’essere una di quelle esperienze che portano con sé degli importanti significati simbolici. Da un lato, in quanto occupazione di una scuola elementare post Asilo, richiama alla mente l’immagine, insieme allegorica e reale, di una crescita ed una maturazione delle pratiche di lotta e mobilitazione che, volente o nolente agli occhi della questura, sono state messe in campo negli ultimi mesi; una crescita ed una maturazione che hanno permesso inoltre di costruire numerosi momenti di riflessione e critica attorno ai conflitti urbani che ogni giorno viviamo. Subito dopo l’occupazione un compagno scherzava su un possibile slogan in vista del corteo del 30 marzo: «Dall’Asilo alla Scuola elementare: promoss*»; ed è evidente che qualcosa sia successo per davvero e questa nuova occupazione ne rappresenta il sintomo. Dall’altro lato, essa riassume simbolicamente un’esperienza di archeologia urbana, come d’altronde sono spesso le occupazioni, un’azione di scoperta e ri-scoperta delle rovine di questa città e in particolare delle scelte scellerate di questa amministrazione comunale che persevera nei suoi intenti urbani: la preoccupazione di disporre di spazi liberi che permettano la circolazione rapida di merci e l’impiego di dispositivi di sicurezza contro la rabbia sociale è all’origine del piano di abbellimento urbano adottato dalla giunta. La parola d’ordine resta, oggi come negli anni Sessanta e Settanta, lo spaccio di un’illusoria partecipazione alla costruzione politico-urbanistica della città attraverso progetti di «rigenerazione urbana» nelle periferie torinesi.
Evidentemente queste proclamazioni rimarranno, se non senza futuro, quantomeno senza conseguenze significative sulla divisione di ruoli tra, da una parte, i produttori dello spazio urbano, ovvero coloro che decidono e concepiscono, gli unici autorizzati a determinare, tra le altre cose, quali forme dovrà assumere la città nel futuro e, dall’altra parte, i consumatori, ovvero i comuni abitanti, invitati da una critica architettonica servile non solo ad accettare ma ad approvare, perfino ad applaudire i «grandi lavori» realizzati senza il loro avvallo. […] Nonostante gli sforzi fatti dalle autorità e dai loro media per far credere il contrario, il potere di intervento concesso al cittadino sulla qualità del paesaggio urbano non ha fatto che confermarlo e confinarlo nella condizione in cui è sempre stato: quella di spettatore. Oggi come ieri, l’arte di costruire rimane appannaggio dei principi, che siano manager globali, governanti nazionali o potenti locali, assistiti dagli architetti rinomati di cui si sono acquistati i servigi.
A tutto questo si vuole opporre l’esperienza di via Tollegno 83: negare l’impossibilità di decidere dello spazio urbano che quotidianamente viviamo e rilanciare con decisione la possibilità di rompere i confini spaziali ed esperienziali che ci vengono propinati con violenza, assumendosi la responsabilità decisionale in quartieri che sono costantemente terreno di guerra tra fasce povere della popolazione ingabbiate sempre più nel gioco-forza di attori pubblici, investitoti privati, speculatori immobiliari, innovatori sociali e storytellers creativi. Un luogo libero e liberato in un quartiere assediato, il quale vedrà a tal proposito, questo sabato 13 aprile, l’apertura del nuovo Mercato Centrale di Torino, gioiello tra i «progetti di pianificazione della tecnocrazia cittadina» nel quartiere di Aurora, un progetto classista ed elitario partorito dalla tragica mente innovatrice di Umberto Montano, mercante tra i «mercanti della città» e proprietario al momento del Mercato Centrale di Roma e Firenze. Vi invitiamo, quindi, a partecipare alle contro-iniziative che si terranno sabato sotto la tettoia dell’Orologio a Porta Palazzo.
Dunque, se le trasformazioni urbane, caratteristica autoritaria di «manager globali, governanti nazionali o potenti locali», diventano un momento di modificazione della percezione e delle pratiche quotidiane in senso violento e coercitivo, le esperienze di occupazione devono rimanere un momento di riappropriazione non solo degli spazi urbani-fantasma ma soprattutto della capacità di decidere in prima persona delle trasformazioni reali che ogni giorno innervano la vita cittadina. Non più solamente spettatori dei mutamenti pervasivi e persistenti dei quartieri ma produttori e creatori di percorsi alternativi che attraversino anche lo spazio di via Tollegno 83; non più spettatori dello svuotamento dei corpi e dei luoghi in favore di una libera circolazione di merci e consumo
Puro prodotto della separazione e della frammentazione della prassi umana sotto l’effetto della divisione capitalista del lavoro, la creazione architettonica viene giustamente considerata un’attività altamente specializzata riservata a una minoranza, per non dire a un’élite. Solo coloro con una formazione, conoscenza e capacità adeguate, possono oggi pretendere di plasmare l’ambiente costruito in cui i loro simili sono chiamati a vivere. È quindi necessario decidersi ad ammettere che la premessa, formulata da André Bernard e Philippe Garnier, secondo la quale «il potere di innovare, d’inventare, si trova nel cuore dell’uomo, di ogni uomo, come potenzialità» non sarebbe applicabile alla produzione architettonica e, più in generale, a quella dello spazio abitato? Ammettere che, in definitiva, la complessità raggiunta oggi dall’attività costruttrice renda illusoria ogni speranza di riappropriazione popolare in questo campo? O non sarà piuttosto, come ogni volta che viene posto il problema della «complessità», un alibi per rendere impensabile l’idea stessa di una tale riappropriazione?
La risposta, per quanto riguarda noi, è semplice. È nato un nuovo spazio, libero e auto-organizzato, in cui poter porre tali domande a livello collettivo e, soprattutto, al di fuori delle linee di un testo. È nato un progetto, una speranza reale, una possibilità nel e per un quartiere di appropriarsi non solo di uno spazio ma di uno squarcio di immaginazione futura. Il nostro desiderio rimane quello di partecipare, di supportare, di collaborare, di trasformare giorno per giorno questa nuova realtà, affinché possa diventare uno spazio comune di lotta e condivisione, prendendo a carico la «complessità» che governa questo momento storico.
A.
Riferimenti:
- Jean-Pierre Garnier, Architettura e anarchia. Un binomio impossibile, Nautilus, Torino, 2016.
- http://www.museotorino.it/view/s/04d828a100c44c0da950cf652154796c
- http://www.comune.torino.it/rigenerazioneurbana/
- https://radioblackout.org/2019/04/food-and-gentrification-a-porta-palazzo/?fbclid=IwAR0emlQDhdDrUt8LXFTCUr9llkI0_WODtkFAxXPlgrWifx_kipHKpdofZ6Y