Se in fabbrica si imparava a lottare insieme, una volta fuori gli operai tornavano spesso a essere soli o con le proprie famiglie, comunque costretti ad arrangiarsi in un territorio ostile. Relegati entro i confini fisici e mentali dei quartieri-ghetto, nelle periferie, stipati in edifici simili ad alveari, senz’aria né verde; oppure, se da poco immigrati, ammucchiati come sardine nelle case più vecchie, in soffitte, scantinati, pensioni e stabili fatiscenti. Non mancano i lager, con tanto di recinto, baracche e guardiani, quali sono i “centri sfrattati”. I nuovi quartieri sono costruiti in modo che nessuno si incontri, come avviene nei condomìni, dove i vicini di casa non si conoscono tra loro e a malapena si salutano. L’architettura e l’urbanistica, al servizio del capitale, ridisegnano una città in cui si vive ammassati, magari condividendo la stessa stanza e la stessa miseria, ma sovrastati dal sentimento di non avere niente in comune. Solo spostando la lotta dalla fabbrica alla città, portando fuori la forza della coscienza di classe che si era accumulata tra i muri delle fabbriche, facendola tracimare nelle strade, nei quartieri, per rompere quella solitudine di massa cui l’operaio tornava dopo il lavoro, solo così si sarebbero potute determinare le condizioni affinché i proletari riuscissero a immaginare e praticare altri modi di vita.
“Prendiamoci la città”. Non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruirne un passaggio fondamentale, la saldatura tra fabbrica e territorio, in una prospettiva di lotta di lunga durata. Questo nostro lavoro di ricerca e documentazione, di cui teniamo a sottolineare il carattere anonimo e compartecipato – “La Barricata” può essere chiunque -, non vuole dare alcuna indicazione politica a chi oggi lotta sulla questione dell’abitare e dei “territori resistenti”. Nondimeno, siamo convinti che queste testimonianze di un passato irripetibile possano contribuire a riflettere sullo stato presente delle cose e sui possibili significati, quarant’anni dopo, del “prendersi la città”. Attraverso le interviste, i testi teorici, le foto di quegli anni si delinea un percorso in cui si passa da forme di “arrangiarsi” individuali all’azione politica collettiva. Lì si producono nuove forme di vita all’insegna dell’auto- (autorganizzazione, autonomia, autogestione); lì nascono basi/retrovie di resistenza e liberazione; lì l’autodifesa nella precarietà si trasforma in una forza che, fuoriuscendo dagli spazi che la città riserva alla marginalità, esige quanto serve, subito, e se lo prende. Registrare questo percorso, breve ma intenso, significa sottolineare una sua forza intrinseca che si sottrae all’usura del tempo.
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