Quando è la povertà a dare fastidio

Che il mondo sia diventato un immenso mercato a cielo aperto, un’agorà consumistica, è sotto gli occhi di tutti. Che ogni piazza, ogni strada, ogni via, ogni spazio si sia trasformato in una messinscena della merce, anche questo, è evidente a tutti. Che ogni momento della vita sia scandito dal consumo diretto della merce o dalla sua illusoria necessità, anch’esso è alla portata di tutti. Eppure qualcosa non torna. Se è vero, infatti, che il tentativo di allargare la produzione di mezzi di consumo e di imporre la diffusione globale e totale dei modelli di consumo occidentali sta colpendo le città di tutta Italia, da Torino a Bologna, da Verona a Napoli, sotto i colpi sferzanti della gentrificazione, rimane altrettanto vero che le vittime di tale processo rimangono sempre le stesse, le fasce più deboli della società civile: poveri e immigrati. Siamo ancora una volta di fronte ad una questione di classe.

A Torino, il quartiere Aurora è da diversi anni oppresso dalle forze congiunte di attori pubblici, investitoti privati, speculatori immobiliari, innovatori sociali e storytellers creativi, tutti impegnati a rendere il quartiere un posto più vivibile, più sicuro e più decoroso. A tal fine si sgomberano spazi sociali, si sfrattano luoghi di libero scambio, si cacciano gli indesiderati. Perché Aurora è diventato, ad un tratto, un quartiere su cui investire, un quartiere con abbondanti potenzialità, un quartiere invidiabile e così vicino al centro, a quel centro in cui poveri e immigrati non mettono piede se non per portare lavoro espresso in manodopera e bassa manovalanza. Valorizzare, riqualificare, rivitalizzare, rigenerare, questi i nomi che vengono dati a tale processo. Noi, per conto nostro, lo chiamiamo saccheggio e devastazione di un quartiere.

Saccheggio e devastazione sono pratiche che, ad oggi, stanno portando avanti questura e comune nel quartiere di Aurora e non solo; il tentativo di deportare parte dei mercatari del Balon, sorte che tocca stranamente la fascia più umile del mercato – la zona di Canale Molassi -, e lo sgombero dell’Asilo occupato sono solo alcuni esempi, forse i più lampanti, del tentativo di saccheggiare e devastare un quartiere intero sotto i colpi della riqualificazione. «Con il termine saccheggio si intende quell’azione di furto collettiva in eventi extraordinari come guerre, terremoti, disastri naturali, manifestazioni»: la guerra ai poveri, ai quartieri più in difficoltà, ad Aurora, è l’evento extraordinario; l’azione di furto collettiva è quella del comune a braccetto con questura, procura e privati con interessi speculativi. «Il devastare, e più spesso l’effetto, la rovina apportata; per estensione, lo stato di squallore e di desolazione»: uno stato di squallore, rovina e devastazione che hanno lasciato nel quartiere, nella città e nell’animo di tuttx.

Quello che sta accadendo è fondamentalmente lo svuotamento all’interno del quartiere degli spazi e delle soggettività non conformi, a-normali, in virtù di un riempimento propriamente fisico di merci e di consumatori facoltosi. Ma quello che più salta all’occhio è, da un lato, il principio di mercificazione ad alto rendimento di questi stessi spazi e, dall’altro, la mercificazione dei rapporti sociali; si sta colpendo, infatti, il cuore della socialità diversa, altra; quello che la sociologia contemporanea ama chiamare capitale sociale. Il paradosso reale diviene quello di un mercato già stabilmente sedimentato nel territorio, con processi in atto di mutuo appoggio informale da parte di una certa fascia della cittadinanza, che viene disgregato, non per essere sostituito, bensì per rimanere mercato, ma un altro genere di mercato: non più “dei poveri per i poveri”, ma un mercato-macchina ad alta efficienza di accumulo di capitali. La necessità diviene quella di svuotare e ri-rempire questi spazi, c’è bisogno di deportare la parte meno efficiente e produttiva di questa stessa fascia di popolazione e sostituirla con una popolazione che produca e soprattutto consumi con più alta efficienza. Sotto le mentite spoglie della riqualificazione si cela un’elitarizzazione di un quartiere perché, quando è la povertà a dare fastidio, la soluzione è l’emarginazione sociale, violenta e irrevocabile almeno tanto quanto la decisione che è stata presa dall’amministrazione comunale.

Il momento presente è già quello dell’autodistruzione dell’ambiente urbano. L’esplosione del centro delle città sulle periferie è dettata, in modo immediato, dagli imperativi del consumo. La dittatura della riqualificazione, prodotto-pilota dell’ultima fase dell’abbondanza mercantile, si è iscritta nel terreno con il dominio della gentrificazione, che sconvolge le vecchie periferie ed esige una dispersione sempre più estesa. Nello stesso tempo, i momenti di riorganizzazione incompiuta del tessuto urbano si polarizzano transitoriamente attorno a quelle «fabbriche di distribuzione» della cultura, del food e del turismo che sono rispettivamente la Scuola Holden, aperta nel 2013, il Mercato Centrale, appena inaugurato, e WeGastameco, ostello di lusso di prossima apertura, giganti edificati in terreno periferico, sul quartiere-cuscinetto di Aurora. Questi templi del consumo precipitoso sono essi stessi in fuga nel movimento centrifugo, verso la periferia, respinti più lontano via via che divengono a loro volta dei centri secondari sovraccarichi. Ma l’organizzazione tecnica del consumo non è che l’avanguardia di quel processo di dissoluzione generale, chiamato gentrificazione, che ha condotto la città a consumare sé stessa.

Tutti questi processi di colonizzazione pioneristica delle periferie, ad opera di facoltosi magnati e speculatori visionari, non fanno altro che costruire e consolidare quell’orizzonte di “normalità” tanto agognato dalla giunta Appendino. Nell’ottica dell’attuale gestione politica della città rendere “normali” i quartieri significa sottrarre alla vista dei più abbienti che li abitano, o piuttosto li abiteranno, le bolle di povertà. La scelta rimane “irrevocabile”: i poveri vanno deportati dal territorio e, soprattutto, bisogna negare loro, e a chiunque solidarizzi, ogni forma di partecipazione all’agone politico. Tale pianificazione disciplinante dei territori permette di delineare il quadro di “normalità” esplicitamente richiesto dal processo stesso di dissoluzione urbanistica; esso, da un lato, prevede la corresponsabilità tra amministrazione comunale e ricchi privati in cerca di investimenti e, dall’altro, una popolazione assoggettata e condiscendente. Così, in questo lavoro quotidiano di soggettivazione dell’apparato sociale nei quartieri più umili, ogni atto non coerente alle logiche del mercato è inteso come un grave atto di insurrezione e, in quanto tale, da reprimere. Questa è la “normalità” che ci propinano. La “normalità” di annichilire e demolire il dissenso, ogni pratica e atto di insubordinazione possibile, ogni ipotetico fastidio arrecato agli interessi della merce sovrana, ogni voce fuori dal coro, ogni possibilità di pensiero altro, di costruzione di alternative, di variazioni, lacerazioni, deviazioni dal progetto comune di dominio e sottomissione a Stato e Mercato, a mercificazione dei territori e consumo della città e delle sue merci. Qui non sono solamente in gioco il passato, il presente e il futuro delle nostre città, ma la possibilità stessa di immaginare una terza via, una possibilità diversa, una realtà altra rispetto a quella in cui viviamo. La “normalità” del mercato va rispedita al mittente.

Per ora nulla di nuovo per questo mondo.

Soldi contro ideali, oppressori contro oppressi.

La scelta di campo appare, di giorno in giorno, sempre più scontata.