Tra confini e frontiere, una politica dell’immaginario

[Riprendiamo questo articolo pubblicato originariamente su naven.altervista.org]

Alle sette di mattina di un martedì qualunque un serpente di automobili si snoda per diversi chilometri prima della dogana di Gaggiolo, al confine italo-svizzero. Sono i frontalieri; silenziosamente in coda, avanzano un metro alla volta per passare sotto la sbarra del Confine di Stato. Poco più in là, un’altra sbarra. Qui le macchine, evitando la lunga coda, passano veloci esibendo il pass dei residenti svizzeri. Percorsi diversi – obbligati – per lo stesso luogo. E’ la frontiera.

Le linee di demarcazione da cui siamo costantemente lambiti, siano esse visibili e/o invisibili, controllate, incustodite, tracciate sulla carta geografica o sulla carta d’identità [fisica o fisiognomica] sono da sempre i limiti – tutti umani – per mezzo dei quali si definiscono la creazione ed il mantenimento di differenze/status/possibilità o condizioni di pensabilità dell’esistente.
Riflessioni sui confini e sulle frontiere affollano da tempo dibattiti e studi su migrazioni e flussi di popolazioni, ma la questione – spesso – non vale solo per i popoli in cammino, che pure sono esemplificativi per descrivere questo sistema, la frontiera riguarda, in maniera assai differente l’uno dall’altra, l’amministrazione delle quotidianità di ogni essere umano.
Nel sistema-mondo per come si presenta oggi, un confine non è più il sistema di tracciati lineari statici [o mutevoli, durante un conflitto] definiti dagli stati-nazione e da essi soli contestabili, ma si dipana in una “costellazione puntiforme e mobile, costituita da dispositivi disseminati sul territorio e pronti ad attivarsi se sollecitati”. Reti che filtrano selettivamente i corpi stringendosi e allargandosi secondo le disposizioni del potere.

Una distinzione, anche solo teorica, sembra però necessaria. Da una parte il confine, in quanto limite [limes, nel suo significato di barriera, sia essa segnalata con un muro o esistente solo sulle carte; ad ogni modo esplicitato] definito dalla comunità internazionale o dalla giurisprudenza nazionale, e valido (in quanto riconoscibile) per tutti. Confine oggettivo [o oggettificato, dichiarato con segni & simboli, trattati internazionali, dichiarazioni unilaterali, statuti, regolamenti,…], di cui ne sono esempio i Confini di Stato, i limiti delle proprietà [singola, multipla, di dominium ex iure Quiritium, usofrutto, usocapione o usurpazione] le zone economiche speciali, i limiti giuridici e di azione/controllo/repressione concessi a un’autorità o a un ente piuttosto che a un altro (zone sottoposte a controllo militare diretto – nazionale o gestito da un ente sovranazionale -, aree di competenza di un corpo di polizia, territori occupati, domini coloniali, CTR, CPR, CIE, CARA, CPA,…). Dall’altra, una definizione molto più ambigua e impalpabile: quella di frontiera. Ciò che presuppone questo termine è l’esistenza di una barriera invisibile [ma non per questo meno percepibile], che sottende una differenza di gradiente di concentrazione da una parte all’altra, regolata attraverso una membrana semi-permeabile, le cui infinite maglie si basano sulla complessa somma e sovrapposizione delle qualità del soggetto, le quali variano – ovviamente – a seconda del contesto. Se il confine esiste a prescindere che si interagisca con esso, la frontiera nasce dalla relazione che si viene a istaurare tra il singolo e il carattere di permeabilità che ogni confine ha – in quanto barriera selezionatrice – e presuppone dunque una riflessione circa le condizioni e i requisiti che permettono [o meno] il suo superamento. Per questo le frontiere possiedono quei caratteri di soggettività che ne fanno una caratteristica inscritta nei corpi dei singoli [identificati da caratteristiche e qualità]. La frontiera non è né immobile, né uguale per tutti, ce la trasciniamo dietro incisa sulla pelle o sul passaporto, sul conto in banca o nella nostra cultura, nei sogni e nei bi-sogni. Se il confine è il signum, il semplice solco inciso da Romolo nella nuda terra, la frontiera è il sacro pomerio e tutto ciò che presuppone attraversare quel sottile tracciato. E allora sono frontiere i tornelli del metrò, che filtrano solamente i futuri passeggeri che dispongono delle qualitànecessarie al loro attraversamento [in questo semplice caso, il biglietto]; le moschee, il cui accesso spesso richiede una qualità più difficilmente acquistabile: la fede musulmana; i luoghi pubblici e/o privati che presuppongono un abbigliamento consono [esplicitamente o implicitamente/culturalmente suggerito], uno status o un incarico (la camera dei deputati), l’appartenenza ad un gruppo sociale/economico/politico (il CDA di un gruppo aziendale, una riunione di partito) o ancora ad una classe lavorativa (l’ufficio professori del liceo, i bagni riservati al personale) oppure il possesso di talune competenze tecniche accertate (le cabine di un aereo, una sala di chirurgia d’urgenza).
Una serie di fattori porta alla balcanizzazione dello spazio del vissuto [la maggior parte del quale ci è comunemente precluso] e alla scrematura degli accessi in base a specifiche qualità.

  • La volontà capitalista di sfruttamento di ogni frazione dell’esistente, supportata da tecnologie di giorno in giorno sempre più avanzate, ha portato a una saturazione giuridica della spazialità, all’interno della quale non esistono più luoghi che scappano al controllo di uno o più enti definiti. Le poche forme di resistenzavengono più /o/ meno violentemente represse e ricondotte alla gestione statale/sovra-statale/privata.
  • E’ evidente come i confini non abbiano soltanto il ruolo di creare disparità di accesso alle frammentazioni dello spazio, ma siano veri e propri dispositivi centraliper l’articolazione dello spazio e del tempo. I confini, rallentando e/o impedendo il passaggio, dilatano e contraggono lo spazio/tempo [rompendone il rapporto di proporzionalità], lo modificano e lo riscrivono. Le infrastrutture di trasporto e i sistemi di controllo gestiscono la geografia degli spazi abitati, le abitudini dei pendolari, le molarità dei flussi lavorativi, le ridefinizioni del paesaggio, delle culture, dei rapporti. I muri e i dispositivi di controllo da Israele a Cipro, da Ceuta al Messico piegano e plasmano il concetto di spazio e di tempo secondo le esigenze del biopotere, sostituendo i confini naturali con barriere semipermeabili mobili o semi-mobili.
  • Queste barriere semipermeabili sono soggettivamente inscritte nei corpi. Le frontiere che ci attraversano diventano ipersoggettivateipersoggettivanti (in quanto sono definite da/definiscono l’insieme di quelle qualità, spesso immodificabili, che ognuno possiede o – più spesso – non possiede, che determinano il superamento delle barriere) ed incollate addosso a migranti, lavoratori, poveri & in-qualificati vari attraverso definizioni di status [clandestino, sans papier, senza titolo, patente, diploma e affini].
  • I confini materializzati, le strutture architettoniche o la consapevolezza sociale di barriere invisibili [spesso ancor più selettive], plasma gli spazi urbani creando zone di esclusività (quartieri per ricchi, zone commerciali esclusive, ma anche giunglecoree). La frontiera assume allora una funzione socialmente strutturante, legando a doppio filo lo spazio alla classe/status/accesso [che potrebbero anche essere classi qualitative, se non fosse che l’estrema soggettività di queste qualità non permette un’organizzazione classificatoria].
  • Ciò che ogni frontiera sottende, sono però le condizioni di pensabilitàdel suo attraversamento, “come pensare” il passaggio della linea. Ora forse qualcuno dei nostri lettori potrebbe senza troppe difficoltà immaginarsi di prendere un aereo da Milano a New York, o – per chi può – addirittura un jet privato, per essere dalla parte opposta dell’emisfero in una manciata di ore. Questa breve fantasia non rientra però tra le “condizioni di pensabilità” di un sudanese o siriano in fuga da scenari di guerra. Ciò che è insito nel concetto di frontiera è dunque anche la condizione di pensabilità del suo superamento, l’insieme di pre-requisiti che permettono di ottenere quelle qualità (nel primo caso un biglietto aereo, un passaporto valido e un visto americano; nel secondo un aereo privato con pilota & annessi) necessarie [ma spesso non sufficienti] al suo attraversamento.

 

Su un muro a Venezia, a pochi passi dal carcere di Santa Maria Maggiore nel Sestriere di Santa Croce, una scritta semicancellata ammoniva i passanti: ogni sbirro è una frontiera.
Frontiere mobili si aggirano nel nome della sicurezza strutturando le nostre quotidianità e creando una rete capillare in grado di arrivare ovunque ridefinendosi e adattandosi continuamente di fronte alle forme di ribellione. Come combattere il potere? Strumenti certi non ve ne sono e c’è chi giurerebbe che è fatica sprecata. Ma non è da tutti adattarsi allo Stato dell’Esistenza. Distruggere fisicamente le maglie della rete è praticamente impossibile [ne sono esempio alcuni episodi eclatanti di insurrezione – i più disparati nella storia – variamente ricondotti alla norma, o repressi tra le più atroci crudeltà], è necessario mettere in campo tutte le intelligenze, le astuzie, i legami, la solidarietà. Ma non solo. Come si è detto “poter pensare” il superamento di un muro, attraversare una frontiera è necessario almeno quanto il travalicamento fisico dello stesso. Ripartire allora dalla narrazione di chi ce l’ha fatta, creare crepe per dimostrare che aprire falle nel meccanismo si può, che il potere non è onnisciente, indistruttibile ed eterno. Ogni trasgressione alla norma è exemplum, è nelle microfratture della realtà che si può vincere, nelle agency che ognuno mette in campo per affrontare il quotidiano. Certo, così facendo, le reti si stringeranno ancora di più, gli strumenti del potere investiranno maggiori risorse per chiudere quei buchi che sono stati rivelati, ma forse allora quelle stesse forze – spostandosi – ne apriranno altri. O forse ancora, più semplicemente, tutto sarà diventato talmente intollerabile che varrà la pena rischiare ogni cosa.